David Bowie ha valicato il muro (Londra, 8 gennaio 1947 – New York, 10 gennaio 2016)
David Robert Jones, in arte David Bowie ci ha lasciato a due giorni dal suo compleanno. Ultimo ma purtroppo non ultimo di una lunga lista di musicisti (non solo rock) che negli ultimi anni se ne sono andati a mettersi in fila per il paradiso.
Siano dipartite tragiche dovute all’abuso di se stessi, semplice vecchiaia o democratiche malattie (come il cancro nel caso di David Bowie), che si portano via ricchi e poveri, famosi o sconosciuti, santi o farabutti, ognuna di queste tragiche scomparse, inevitabilmente sempre più assidue, ci ricorda a noi sopravvissuti che il tempo passa, i decenni si accavallano e il rock è sempre più materia dei libri di storia, anche di quelli con la S maiuscola.
La prova concreta della teoria wildiana che la vita imiti l’arte più di quanto l’arte imiti la vita, si trova nell’impatto che l’iconografia e l’agiografia rock ha avuto e continua ad avere sulla società e sulle singole persone.
David Bowie, cantante, musicista, attore, personaggio trasformista dai mille volti, sempre diverso ma sempre se stesso (come un Signore del Tempo rigenerante) ha fatto dell’immagine di se stesso il simbolo grafico della sua musica, dai timidi esordi sul finire degli anni ’60, passando per la fantascienza, all’orientalissimo fantastico, al Duca Bianco, alla Trilogia Berlinese, fino all’ultimissimo album “Blackstar“, suo testamento artistico totale; ogni nuova incarnazione di Bowie ha avuto echi nell’immaginario iconografico successivo (quanto l’iconografia punk rock deve a Ziggy Stardust?). La sua musica, sdolcinata e “fascinosa”, cantautorale ma sconfinante la forma canzone, riesce ad essere multiforme, delle varie forme che i vari Visconti, Ronson, Alomar ed Eno di turno riuscivano a dargli, ma identificabile sempre con l’impronta “autoriale” che David Bowie finiva col dargli.
Personalmente non sono mai stato un suo accanito fan ma tra i “vari bowie” è possibile trovare per ciascuno di noi e dei nostri variegati gusti, anche il “suo” Bowie.
Il mio Bowie è quello della cosiddetta “Trilogia Berlinese“. E lo voglio ricordare con alcuni estratti testuali che lo riguardano dal mio “The Road to 1981“, speciale radiofonico, su Fripp, Roxy Music, Peter Gabriel, Talking Heads e Bowie, risalente all’ormai quasi lontano 2010.
In quell’epoca David Bowie era vivo ed era soltanto uno dei tanti “dinosauri del rock”.
“The Road to 1981” estratti – Omaggio a David Bowie
… anche perché per la nostra strada al 1981 è arrivato il momento di fare un salto geografico e temporale. Trasferendoci a Los Angeles nel 1976 e poi a Berlino.
David Bowie nel frattempo era impegnato ad essere la quinta essenza di quanto rifuggiva Robert Fripp. Una rockstar idolatrata, strafatta di cocaina e ossessionata dalla propria immagine. Anoressico e apatico, riusciva lo stesso a macinare successi su successi.
Le altissime vendite in America degli album “Diamond Dogs” nel 1974 e di “Young Americans“, agli inizi del 1975 spinsero David Bowie a trasferirsi a New York prima e poi a Los Angeles a seguito dell’ingaggio da parte di Nicolas Roeg per il film “L’Uomo che Cadde sulla Terra“.
Los Angeles è un mostro troppo seducente e pericoloso per chi è debole psichicamente.
E l’ex Re del Glamour, l’ex Ziggy Stardust, l’ex sottile Duca Bianco, ormai era ridotto alla sola ombra di se stesso con una dieta a base di cocaina, latte e peperoni.
Toccato il fondo. Riuscirà a darsi una parvenza di regolata solo durante le riprese del film.
Se l’album “Station To Station“, uscito a gennaio del 1976, tipico album di transizione, fa intravedere solo in parte la nuova strada che prenderà Bowie, ma soprattutto il primo grido d’aiuto per una ripresa fisica e mentale, è con le bocciate tracce per la musiche del film di Roeg che troviamo il vero punto di partenza per quella che viene definita “La Trilogia Berlinese“.
Bowie prova per la prima volta a cimentarsi con le diavolerie elettroniche, evidentemente con scarsi risultati, considerando il rifiuto del regista di utilizzarle, ma parte di quel materiale vedrà la pubblicazione con l’aiuto e la guida di Brian Eno, a gennaio dell’anno successivo con il primo album della trilogia, “Low“.
Durante il tour americano del ’76, proprio a Los Angeles, Bowie incontra prima Brian Eno con il quale cominciano a meditare una collaborazione e poi lo scrittore di culto Christopher Isherwood. Come lui un inglese espatriato che per molti anni ha vissuto a Berlino. I due hanno un lungo colloquio nel quale Bowie matura l’idea di trasferirsi in quella città. Anche se dai tempi di Isherwood molte cose erano cambiate.
Finito il frammento europeo del Tour di “Station To Station” David Bowie e il suo amichetto Iggy Pop si recano ai famosi Château d’Hérouville che in quel periodo era passato nelle mani dell’ex Magma Laurent Thibault per realizzare fra il luglio del ’76 e il febbraio del ’77 l’album di Iggy Pop “The Idiot” (in realtà considerabile come l’album non ufficiale di David Bowie). “The Idiot” rappresenta una prima prova di quello che farà poi Bowie nei mesi successivi. L’album uscì a marzo del 1977, cioè due mesi dopo “Low“. Bowie non voleva dare l’impressione che fosse stato lui a imitare l’ex Stooge.
La produzione di “Low” si ebbe a settembre e ottobre del ’76 sempre agli studi del Château d’Hérouville. Nel gruppo di lavoro si trovavano: Il produttore Tony Visconti che contribuì molto, quanto ad Eno al risultato finale degli album della trilogia, il nuovo direttore artistico e arrangiatore di Bowie il chitarrista Carlos Alomar (nel ruolo che un tempo apparteneva a Mick Ronson), il bassista George Murray e il chitarrista Ricky Gardiner che proveniva dai Beggar’s Opera e amico di Visconti.
L’album, che all’inizio doveva intitolarsi New Music Night and Day, è caratterizzato da due lati ben distinti (come faranno i King Crimson di “Three Of A Perfect Pair” tempo dopo). Il lato A contiene canzoni più tradizionali ma non privi di innovazioni come “What in the World“. Il videogioco Pac Man è del 1980 e c’è da chiedersi se i realizzatori si siano ispirati ai suoni creati da Eno per questo pezzo, dove ci canta anche Iggy Pop.
Il lato B invece presentava brani più complessi, strumentali, elettronici e molto ispirati ai lavori della scena tedesca. Kaftwerk e Neu! “Neu 75“, il terzo album di questo gruppo aveva più o meno la stessa struttura.
I brani del primo lato sono tutti frammenti di brano rock. Come “Speed of Life” e la brevissima “Breking Glass“. I brani iniziano con la musica come se fosse già partita prima della registrazione e finiscono con la musica che ancora prosegue, per andare non si sa dove. Questa frammentarietà si nota anche nei testi. Non più storie, ma frammenti di frasi. Sentenze filosofiche e distici ambigui.
Eno arriverà agli Chateau a lavorazione iniziata. Dando solo qualche pennellata qua e là nel primo lato. Il suo contributo si sente più massicciamente nel secondo lato, soprattutto in un brano come “Warszawa“.
La produzione decide di lasciare lo Château d’Hérouville a seguito di alcuni inconvenienti tecnici ed una intossicazione alimentare … (la storia si ripete come per i Jethro Tull nel 1972) .. e decidono di spostarsi agli Hansa Studio di Berlino Ovest a terminare l’ultima parte della produzione.
La copertina dell’album usava una foto di Bowie da “L’Uomo che cadde sulla Terra“. David Bowie visto di profilo con sopra la parola LOW. Basso profilo.
Bowie in Francia non stava molto meglio di quando stava a Los Angeles, ma le sue intenzioni erano di provare ad avere una vita normale. Mettersi una maglietta e un paio di jeans e andare a fare la spesa (ma quando mai?!) ma allo stesso tempo aveva bisogno di un luogo che lo stimolasse artisticamente e per questo Berlino ovest era il luogo perfetto. Completato “Low” la decisione fu di rimanerci e di realizzare il successivo e autentico capolavoro che è ““Heroes”“, con la chitarra infinita di Robert Fripp ottenuta grazie all’abilità quasi scientifica dell’occhialuto sperimentatore di provocare feedback, posizionandosi in diversi punti dall’amplificatore per ottenere le varie note.
Fripp suona in 6 dei 10 brani dell’album, uscito ad ottobre del 1977, e possiamo serenamente ritenere che l’interesse che l’album in generale, e la title track in particolare , suscita ancora oggi, sia dovuto in larga parte ai suoi interventi.
Bowie voleva Fripp (e Eno) fin dai tempi di “The Idiot“. Ora che aveva entrambi disponeva di tutte le tessere per il suo capolavoro della seconda metà degli anni ’70. Fripp arrivò una sera a Berlino da New York, attaccò la sua chitarra agli aggeggi di Eno. Suonò per 6 ore senza conoscere i pezzi prima. Rimise la chitarra nella custodia e ripartì la mattina successiva.
Tony Visconti dovette soltanto selezionare i momenti migliori e aggiungerli ai brani che in gran parte erano già terminati.
L’album è bifronte come il precedente, ma in maniera meno netta. Nonostante le atmosfere cupe e opprimenti che pervadono per tutta la sua durata, negli Hansa Studio si respirava un aria più leggera e divertita. Con le sole carte di Eno le Strategie Oblique con le quali è stato realizzato molto del materiale, a creare qualche attrito, soprattutto in Carlos Alomar che le riteneva una stupidaggine.
I testi, con l’eccezione della title track, usano il metodo Burrogsiano di improvvisare ed incollare le parole già usato in “Low“. Il brano “Heroes“, diversamente, descrive una struggente storia d’amore fra due amanti separati dal muro berlinese. Anche se ci sono molte altre interpretazione del testo sicuramente non è quell’inno alla gloria e all’ottimismo che molti pensano. Le virgolette ironiche in cui è chiusa la parola sono a testimoniarlo.
L’ottima sequenza di 5 brani del primo lato si chiude con “Blackout” dove spiccano Fripp, che impressiona con la sua chitarra dissonante, e la solita batteria di Dennies Davis, che come era successo per l’album precedente, viene pesantemente trattata da Tony Visconti creando un suono che verrà molto imitato negli anni ’80.
Con l’arrivo a Berlino ovest, Bowie passa dalla capitale della cocaina alla capitale dell’eroina, ma è l’alcol il vero nemico di questo periodo. Indubbiamente le sue condizioni fisiche erano in miglioramento, ma ancora ben lontane da poter dire di stare bene.
Bowie e Iggy Pop prendono un appartamento al 155 di Hauptstrasse in uno dei quartieri più poveri della città, non lontano da dove si era stabilito Isherwood anni prima. Facendo la spola fra l’appartamento e gli Hansa Studio, a ridosso del muro e quindi teatro perfetto per le atmosfere dell’album, non è che la vita quotidiana si svolgesse all’insegna della salute, come descrive bene Iggy: “Ci sono sette giorni in una settimana: Due per fare baldoria. Due per riprendersi e i rimanenti tre per fare qualunque altra cosa”.
Ogni tanto, quando possibile, si permettono una visita alla parte est di Berlino, ben descritta da David Bowie come: “Tagliata via dal suo mondo, dalla sua arte, dalla sua cultura, agonizzante e senza alcuna speranza di risarcimento”.
La copertina dell’album vede Bowie in una posa strana che rifà il verso a quella di Iggy per “The Idiot” che a sua volta fa il verso a un ritratto di Ernst Ludwig Kirchner del 1917.
Bowie è totalmente preso dal suo nuovo giocattolo: qualunque cosa manifesti l’aria decadente della Berlino della prima metà del secolo e del moderno krautrock.
Ad aprire il secondo lato dell’album, quello sperimentale, c’è il brano di transizione “V-2 Schneider“, con evidente omaggio a Florian Schneider dei Kraftwerk.
Bowie si stancherà presto anche di Berlino, ma gli album prodotti in questo breve periodo sintetizzano bene l’atmosfera berlinese di quello scorcio degli anni ’70 dove la città pareva diventata la nuova capitale della musica. Un testamento famoso è il film “Christiane F. noi i ragazzi dello zoo di Berlino” del 1981, dove Bowie è molto presente.
…. è il momento di una altro salto, ma questa volta restiamo nell’anno 1978, a settembre, in Svizzera.
Negli avanguardistici, all’epoca, Mountain Studios di Montreaux viene realizzato gran parte dell’album “Lodger“.
Insieme a Bowie e ad Eno, molto più presente in questo album che nei precedenti due, ci sono i soliti Alomar, Davis, Murray e Visconti, ma al posto di Fripp troviamo un altro futuro Crimson, Adrian Belew, scippato a Zappa da Bowie per portarselo nel suo tour. Aggiunto in alcuni brani il talentuoso violinista Simon House (High Tide, Hawkwind).
“Low” era stato prodotto largamente in Francia e solo rifinito a Berlino. ““Heroes”” era prodotto a Berlino e lì completato. Fra i due album c’è una affinità strutturale e ideologica.
Per “Lodger” è tutta un’altra storia.
Bowie era lontano da Berlino ormai da diversi mesi. Sia per il tour mondiale di Low/Heroes sia per le riprese del film “Gigolò” diretto da David Hammings. Brian Eno, anche lui giramondo, ormai Berlino la vedeva solo in cartolina.
Durante i lavori in Svizzera i metodi compositivi di Eno, mazzi di carte e lavagne, raggiungono livelli poco sopportabili dagli altri. Bowie sorvola sulla cosa trattando i collaboratori come degli scolaretti indisciplinati, ma qualcosa è comunque cambiato fra i due. Se ““Heroes”” è stato frutto di una collaborazione amichevole e divertita, “Lodger” è frutto dell’attrito fra i due. Ormai la lontananza temporale e geografica aveva fatto divergere gli obiettivi artistici dei due leader e il risultato è un album come “Lodger“, spesso sottovalutato, ma pieno di quella carica crimsonica a noi molto cara, a parte Bowie che ritorna a fare il croonie dopo la tregua che ci aveva dato con i primi 2/3 della trilogia. Un album difficile all’impatto, ma che è capace di dare continue sorprese ad ogni nuovo ascolto.
Completato il lavoro di base, Bowie sembra quasi non dare importanza al progetto, occupato a fare la star ospite internazionale e prima di spostarsi ai Record Plant di New York per le rifiniture bisognerà aspettare il marzo del 1979.
Agli studi nuiorchesi Eno non si fa neanche vedere e ai tre rimasti sfiora l’idea di realizzare materiale nuovo in power trio. Con Bowie alla voce e chitarra, Visconti al basso e Belew alla batteria…. sarebbe stata una cosa interessante, ma alla fine si opta per finire il lavoro di “Lodger” che finalmente esce a maggio nei negozi.
Ma che fine aveva fatto Brian Eno ?
In realtà non era molto lontano, anzi. In quel marzo del 1979 faceva la spola fra la sua nuova casa al Greenwich Village e le sale di incisione a Long Island, occupato per i lavori preliminari del terzo album dei Talking Heads.
… ma questa è un’altra storia e David Bowie purtroppo non ne fa più parte.