Speciale YES: “Fly From Here” e “Return Trip”
“Fly From Here“, il 20° album in studio della storica progressive rock band YES, uscito originariamente nel 2011, è stato di recente riproposto in una versione differente con il titolo “Fly From Here – Return Trip“, uscita ufficialmente il 25 marzo 2018.
Con il pretesto di analizzare le differenze tra le due versioni dell’album, è anche l’occasione, con questo Speciale a cura di Jacopo Muneratti (e con qualche contributo del Vs. redattore), di parlare un poco degli YES.
DEPARTURE
Cosa avrebbero detto i vari gruppi punk usciti a fine anni ’70 se avessero saputo che la seconda decade del XXI secolo sarebbe stata dedicata soprattutto alle celebrazioni del cinquantennale (mezzo secolo!) dalla nascita di molti di quei complessi che loro stessi quarant’anni fa consideravano dei “dinosauri”? Qualsiasi sia il vostro pensiero a riguardo, va detto che spesso è un miracolo che alcuni di questi siano riusciti a durare così tanto tempo.
Gli Yes sono sicuramente uno degli esempi maggiori: una band che ha scritto alcune delle pagine più belle della storia del rock ma che, allo stesso tempo, è stata una grande ed enorme famiglia disfunzionale composta da vari cugini, zii e parenti vari che non si sopportano tra di loro e che, a rotazione, passano da prendersi a pugnalate, a ricongiungersi e, dopo qualche anno, ricominciare a prendersi a pugnalate.
Le vicende che ruotano intorno alla realizzazione del loro ventesimo album in studio “Fly From Here“, pubblicato nel giugno 2011, riassumono piuttosto bene le politiche interne del gruppo. Nel 2008, Jon Anderson, lo storico cantante del gruppo e, secondo non pochi, uno dei marchi di fabbrica del sound degli Yes ebbe diversi problemi respiratori alla vigilia di quello che avrebbe dovuto essere il primo tour dopo quattro anni di inattività, rischiando la vita e venendo costretto a prendersi almeno sei mesi di pausa. Assolutamente non intenzionati ad annullare un tour per una bazzecola del genere, i suoi illustri colleghi Steve Howe (chitarra), Chris Squire (basso), Alan White (batteria) e Oliver Wakeman (tastiere), figlio del grande Rick, che ci auguriamo non abbia bisogno di introduzioni, decisero di procedere comunque reclutando un cantante che potesse ricoprire meglio possibile il ruolo del frontman e che, per giunta, conoscesse pure bene il repertorio. Quale miglior campo di ricerca se non all’interno delle tribute band?
La scelta cadde sul Canadese Benoît David, un giovanotto dalla timbrica vocale molto simile a quella di Anderson che da anni militava nella tribute band Close to the Edge. Durante questo periodo, decisero che David sarebbe stato in tutto e per tutto il sostituto di Anderson, al quale venne dato il benservito a mezzo stampa dopo anni di onorata carriera. La cosa ebbe alcuni prevedibili effetti negativi (l’ira di Jon Anderson si accomunò a quella di molti fan della prima ora che rifiutavano a priori qualsiasi versione degli Yes non lo comprendesse) ma anche qualche lato positivo: la presenza di un cantante che da anni faceva parte di una tribute band aveva consentito al gruppo di inserire alcuni pezzi rari e poco suonati dal vivo in scaletta (“Astral Traveller“!) e l’assenza di Jon Anderson finalmente dava carta bianca agli Yes di eseguire dal vivo dopo 29 anni i brani tratti da “Drama“: il loro decimo album in studio pubblicato nell’agosto 1980, passato alla storia per essere stato l’unico prima del 2011 a non contenere Anderson come cantante, un disco che col tempo è stato rivalutato ed è diventato oggetto di culto presso i fan più accaniti.
Al termine del tour, gli Yes, rinvigoriti, decisero di andare in studio di registrazione per la prima volta in dieci anni, e di chiamare come produttore Trevor Horn: colui che aveva preso il posto di Anderson per “Drama” e che, poco dopo, si era ritirato dal suo ruolo di cantante per intraprendere una validissima carriera nel mondo della produzione. Horn era intenzionato a riprendere in mano alcuni brani che erano stati composti per un mai realizzato sequel di “Drama“. Questo, ovviamente, significava una sola cosa: alle tastiere doveva esserci per forza Geoff Downes, co-autore di quei pezzi e membro della line-up di “Drama“, oltre che, assieme a Horn, parte del duo new wave The Buggles, autori della celeberrima “Video Killed the Radio Star“. Così, dopo alcune session preliminari, il povero Oliver Wakeman venne cacciato, Downes, che era comunque un po’ di famiglia dato che militava negli Asia assieme ad Howe, tornò al suo posto dopo 31 anni e l’album che ne risultò, “Fly from Here“, avrebbe potuto essere tranquillamente considerato un sequel di “Drama“, se non fosse stato per il cantante diverso. In ogni caso, il disco riuscì piuttosto bene per via di un buon connubio tra materiale solido e ottima produzione e la sua accoglienza fu più calda delle aspettative.
ROUND TRIP
Nel 2011 non ero ancora un grande appassionato degli Yes, pur riconoscendone il valore, e quindi chiesi all’amico Donald McHeyre di occuparsi in mia vece di una recensione del nuovo atteso disco del gruppo, in modo da poterla pubblicare all’interno del mio blog di approfondimenti musicali Good Times Bad times:
È USCITA LA NUOVA COPERTINA DI ROGER DEAN (di Donald McHeyre)
Si lo so, il titolo è un poco provocatorio ma di tutti i numerosi componenti, passati e rimasti degli Yes (perché personalmente lo considero un componente effettivo degli Yes), Roger Dean è l’unico che non mi ha mai deluso. E poi quando c’è lui, c’è anche Steve Howe e viceversa. Sia la copertina che il solito meraviglioso confezionamento, a cui ci ha abituato la band da (quasi) sempre, non sono però l’unica cosa gradita di questo nuovo album degli Yes che arriva dopo 10 anni dal ben apprezzato “Magnification“. La storia e le problematiche (nel caso degli Yes quasi sinonimi) tra i due album sono cronaca accessibile a tutti e non starò qui a ripeterle: il risultato, parafrasando Il Gattopardo, è “bisogna che tutto cambi perché tutto resti uguale”.
Via Jon Anderson, il quale si è permesso di ammalarsi durante un importante tour (quale affronto). Il bradipo, noto anche come Chris Squire, non si è lasciato sfuggire neanche per un istante l’occasione per defenestrarlo completamente e sostituirlo con nuove(?) leve. Secondo l’assioma che quella di Anderson sia l’unica (a volte irritante) voce possibile per gli Yes (chi ha detto Trevor Horn?), chi era l’unico al mondo che poteva sostituirlo se non qualcuno che proviene dal fandom, che conosce a menadito ogni istante della loro discografia e che l’ha pure cantata a mo’ di imitatore fino a ieri? Ma Benoît David, ovviamente. E incredibilmente nei minori (per fortuna) momenti in cui fa l’imitatore, sembra proprio di ascoltare l’ex calciatore di Accrington nel Lancashire ma ancora più incredibile, nei maggiori (per fortuna) momenti in cui decide di fare il cantante, David si dimostra perfettamente calato nel sound Yes… o dei Buggles? No, degli YES!
Sono passati appena pochi istanti dall’addio di Anderson e Wakeman ma tanto le lacrime si sono già asciugate, ed ecco apparire Trevor Horn e Goeff Downes. Il primo nel ruolo che sa fare ottimamente, ossia il produttore, l’altro nell’unico ruolo che sa fare, il tastierista (oltre ad affossare e rendere di nicchia, un gruppo miliardario come gli Asia). E i due ne approfittano subito per proporre a Squire, Howe e Alan White (a questo punto il trio che crea stabilità e continuità al progetto YES) uno scarto (ma che scarto) da studio risalente ai tempi di “Drama“.
WE CAN FLY (from Here)
La prima metà del CD ed il primo lato del vinile contengono la suite in 6 parti e, qui come in tutto l’album, si può apprezzare il grande lavoro di produzione sui suoni che sono l’altro marchio di fabbrica del gruppo fin dai tempi dell’altro ex semi ufficiale Yes: Eddie Offord. Straordinarie dinamiche degne di un vinile e miracolosamente salvate nella stampa in CD, suoni vivi e colorati che donano alla musica una vita tridimensionale e un impatto elevato anche nei momenti meno ispirati. La voce (vera) di David amplia di molto lo spettro interpretativo ma nei coretti con Squire il fantasma di Anderson è palese quanto nostalgico. In effetti l’apparato melodico di tutta la composizione ci riporta al decennio d’oro del cosiddetto progressive. E’ pur vero che è dai tempi dell’album verde che le suite degli Yes sono sempre la solita, magnifica, “Close to The Edge“. Nulla di nuovo, quindi parrebbe. Eppure, la ditta Downs & Horn non è la ditta Anderson & Squire … e Howe. I due Buggles hanno un loro stile di composizione e delle loro idee ma come successo per “Drama” pur differenti, questi stile e idee, riescono ad amalgamarsi perfettamente con il “sound yes”, ottenendo il risultato, questo sound, di rimanere se stesso ma più fresco. La suite è per lo più farina proveniente dal sacco di Downs e Horn ma Howe, Squire e White ci si calano alla perfezione La chitarra, soprattutto, è comunque presente in modo massiccio nel secondo movimento (quello del singolo) per ovvi motivi di rappresentanza, in versione acustica (classica) all’inizio del terzo movimento “Sad Night at the Airfield” e, avendola scritta lui, nella quarta parte, “Bumpy Ride“, forse il momento più interessante e “sperimentale” della suite, dove gli Yes sembrano i Gentle Giant.
Il lato B si apre con “The Man You Always Wanted Me to Be” che, udite, udite, vede Chris Squire come lead vocalist (si vede che manca Anderson). Il brano scritto dal bradipo in persona con l’aiuto del suo ex compagno dei Syn, Gerard Johnson è orecchiabile, ruffianetto al punto giusto e potenziale altro singolo. Ancora più interessante la successiva, “Life on a Film Set” anch’essa scarto dei Buggles ma qui arrangiata ottimamente. Soprattutto Howe si ricorda chi è con la sua chitarra classica in un brano apparentemente AOR ma chi riserva piacevoli sorprese. Il finale è un poco inconcludente ma azzardo a dire che qui Anderson non avrebbe fatto meglio di David. Ed ecco finalmente i due pezzi scritti dal solo Steve Howe: li aspettavo dall’inizio dell’album! Il primo, “Hour of Need“, nonostante (o forse a causa) dell’inizio promettente diventa dopo 15 secondi esatti un rilassato brano da spiaggia anche se non ai livelli dei momenti più beceri dello Jon Anderson. “Solitaire” è il vero momento “solitario” di Howe, come lo fu per il brano “Masquerade” in “Union“. I momenti acustici e “intimi” di Howe sono di quanto più lontano ci possa essere dal mondo Yes, dal progressive, dalla cultura Britannica: momenti di pace e riflessione. Chiude l’album “Into the Storm“, altro potenziale singolo pop (vabbe’ .. pop epic folk), che sul finale chiude il cerchio con la suite. Il brano è scritto da tutti i componenti del gruppo compreso White e con la firma di quell’Oliver Wakeman (oh dad!) che aveva partecipato al tour del 2008 e che aveva pure cominciato a collaborare in studio per “Fly From Here” fino all’arrivo di Downes. In ultimo, alla faccia nostra e per la gioia dei collezionisti, in Giappone (i soliti privilegiati) il disco è uscito con un pezzo in più che non è altri “Hour of Need” lunga il doppio. Chissà se così il pezzo ne giova o ne raddoppia solo l’agonia (SPOILER: ne giova, ne giova – ndr).
In conclusione, un album che non raggiunge le vette di “Keys To Ascension” (le parti in studio), se vogliamo rimanere in ambiti relativamente più recenti ma lo stesso apprezzabile e piacevole. E poi c’è Roger Dean!
a te la linea, Jacopo …
BUMPY RIDE
… grazie, Donald.
Sono passati solo sette anni dall’uscita del disco originale ma all’interno della famiglia Yes sono cambiate così tante cose che sembra si parli di un secolo fa. Per uno stranissimo caso del destino, anche Benoît David si beccò una malattia respiratoria subito dopo il tour di “Fly From Here“, con le stesse identiche conseguenze: venne licenziato a mezzo stampa e sostituito da un ancora più giovane cantante, Jon Davison, che tutt’ora milita nella formazione, perlomeno fino a quando non rimarrà indisposto anche lui. Questa line-up, nel 2014, ha inciso un album intitolato “Heaven & Earth” che, a differenza di “Fly From Here“, è stato accolto molto negativamente, trattandosi, effettivamente, di un disco molto piatto, stereotipato e con ben pochi momenti ispirati.
Soprattutto, nel 2015 avvenne la tragedia più grande della storia degli Yes: la morte di Chris Squire, vero e proprio artefice della direzione creativa del gruppo, parte essenziale del sound e l’unico membro ad esserci stato fin dal primo album. Sorprendentemente, ma non poi così tanto, gli Yes hanno deciso di continuare, capitanati da uno Steve Howe sempre più famelico di tour. L’ingrato compito di rimpiazzare (“sostituire” non è certo una parola contemplabile in questo contesto) Squire è toccato a Billy Sherwood, se non altro non proprio l’ultimo arrivato: aveva già collaborato con il gruppo, infatti, negli anni ’90 e i suoi talenti si possono ascoltare e apprezzare negli album “Open Your Eyes” e “The Ladder” e, in minor quantità, anche su “Union“, oltre ad esseri occupato del mixaggio delle parti in studio dei due “Keys To Ascension” e di “Heaven & Earth“, (riguardo a quest’ultimo, farebbe meglio a non vantarsene troppo).
Come se questo non fosse stato un colpo abbastanza duro all’organico (chiamatelo pure come volete ma, per favore, arrivati a questo punto, non Yes), a causa di problemi di salute, è stato messo in secondo piano anche il batterista Alan White. Essendo White socio azionario del nome Yes, non può non suonare nei concerti, ma il suo ruolo è stato relegato solo ai bis. Per il resto dello spettacolo, il batterista è stato sostituito, alternativamente da Dylan Howe, il figlio di Steve Howe e dall’americano Jay Schellen, che già aveva avuto a che fare con la famiglia disfunzionale negli anni scorsi, avendo già collaborato con Peter Banks, Chris Squire e Billy Sherwood.
Nel frattempo, Jon Anderson, Rick Wakeman e l’ex chitarrista del gruppo Trevor Rabin, dichiarandosi più o meno esplicitamente rivali del gruppo di Howe e White, hanno cominciato un tour insieme proponendo la loro versione degli Yes e, dal 2017, per non amichevole concessione dei loro ex colleghi, hanno legalmente diritto di farlo: questo significa che, al momento, ci sono in circolazione due gruppi che pretendono di portare avanti il nome (la storia dei vari “Yes” fatta dagli studi legali, non si esaurisce qui. Sono esistiti, tra gli anni ’80 e ’90 anche i cosiddetti “YesWest” e la Anderson, Bruford, Wakeman & Howe, chiamati così perché i primi, Squire, Rabin, White, Kaye e … Anderson, non avevano concesso ai secondi il permesso di utilizzare la parola … ehmm … il nome Yes – ndr).
Considerando tutti questi trascorsi e tutto questo poco rispetto nei confronti dei membri presenti e passati, la recente decisione di pubblicare una nuova versione di “Fly From Here” ricantata da Trevor Horn cosa che, essenzialmente, cancella il povero Benoît David dal canone degli Yes, come se fosse stato un semplice errore di percorso, non dovrebbe stupire più di tanto.
RETURN TRIP
Eppure, contrariamente a tutte le disgrazie descritte, questa operazione porta anche degli aspetti positivi. Per prima cosa, come già detto, Trevorn Horn, seppur brevemente, è stato l’unico altro cantante oltre a Jon Anderson a fare parte di un periodo classico degli Yes e, in questo album, ben sette brani riportano la sua firma: non si tratta certo dell’ultimo arrivato o di qualcuno che non aveva alcun diritto di far parte della musica qua contenuta. Le differenze tra questa nuova edizione e l’originale non si limitano al semplice inserimento della voce di Trevor Horn: l’album è stato totalmente remixato e, in alcuni casi, addirittura prodotto da capo, viene utilizzata la già citata versione estesa di “Hour of Need” e la scaletta contiene una canzone aggiuntiva, “Don’t Take No For An Answer” incisa durante le session originali del disco ma lasciata fuori dall’album. Inoltre, come spiegato nelle interessanti note di copertina contenute nel libretto, oltre a Horn, anche Geoff Downes e Steve Howe hanno aggiunto nuove parti e modificato quelle preesistenti. Viene da chiedersi se questa rivistazione abbia qualche significato più profondo ed extra musicale dato che da allora Downes e Howe, nel 2013 e nel 2017 rispettivamente, hanno dovuto fare i conti con la tragedia più grande che possa colpire un genitore, la morte di uno dei propri figli, e che Horn nel 2014 ha visto la moglie spegnersi dopo anni di agonia causati da un brutto incidente con un fucile ad aria compressa.
Tornando all’album, questa nuova edizione, se non altro, ci costringe a riprendere in mano un disco che, per via delle dinamiche che lo circondavano e per il periodo storico era passato in secondo piano. Il tempo, come si sa, è un giudice impietoso perché non tiene assolutamente conto di qualsiasi tipo di eccitazione e, in questo caso, con grande sollievo, possiamo ufficialmente definire il materiale che compone “Fly From Here – Return Trip” fresco, ispirato, fatto molto bene e di piacevole ascolto. Esemplificativa di tutto ciò è sicuramente la suite che dà il titolo al disco: si tratta di una composizione dalla struttura tipicamente progressive ma il cui contenuto strizza l’occhio ad un pop adulto e maturo, rendendo il risultato finale molto piacevole e, sicuramente, da ascoltare più di una volta. Ottima anche l’idea di estendere “Hour of Need” da tre a sette minuti, grazie ad una intera sezione strumentale eliminata nella versione originale, trasformando quello che prima era un semplice brano gradevole in uno dei pezzi migliori del disco. Tra gli altri brani degni di nota possiamo citare anche “Life on a Film Set” che ricattura in maniera molto convincente le atmosfere di “Drama” con melodie, arrangiamenti e struttura memorabili e la conclusiva “Into the Storm” che riesce a collegare in maniera naturale delle atmosfere epiche, anche se sanno un po’ da tribute band degli Yes, ad un ritornello molto orecchiabile. Inoltre, per quanto ormai sia diventato un rito, la consueta finestra per sola chitarra acustica di Steve Howe (“Solitaire“) risulta comunque ottima e, inutile dirlo, magistralmente eseguita. Per quanto riguarda l’inedita “Don’t Take No For An Answer“, cantata da Steve Howe, si tratta più che altro di un brano che serve come prova del fatto che avere una buona voce per i controcanti non significhi per forza essere portati per il ruolo di cantante solista (la prova l’abbiamo avuta fin dal primo album solista di Howe del 1975, “Beginnings” – ndr)
Comunque, generalmente, non si può certo dire che “Fly from Here – Return Trip” trasformi il materiale originale in maniera così radicale: il disco in sé rimane un prodotto di fattura pregevole ma, complessivamente, non eccellente. Eppure, ascoltandolo, non si può fare a meno di notare che questa ripresentazione è, molto probabilmente, come avrebbe dovuto essere l’album fin dall’inizio: finalmente, l’atteso sequel di “Drama” (1980) esiste al 100%. La voce di Horn ovviamente è più matura dai tempi di “Drama” ma, data l’avversione del cantante/produttore verso le performance dal vivo, non si è consumata più di tanto e il cantato suona convincente ed espressivo, anche se in un paio di punti la timbrica è un po’ innaturale, forse per colpa di filtri di studio applicati in maniera troppo pesante. Va detto che non tutte le scelte di produzione hanno convinto i fan: ad esempio, c’è chi non ha apprezzato la modifica delle transizioni tra i movimenti della suite principale, soprattutto per quanto riguarda l’accorciamento della durata totale di due di loro: la traccia 2″We Can Fly” e la traccia 3 “Sad Night at the Airfield” (d’altra parte chi scrive, trova un’ottima scelta lo spostamento del finale della traccia 2 alla fine della traccia 6, ossia di tutta la suite, sostituendolo con una parte più brave di musica “descrittiva”- ndr).
In ogni caso, ascoltando questo “Fly From Here – Return Trip” slegato dal suo contesto, si ha l’impressione di un gruppo maturo e in grado, nonostante tutto, di presentare prodotti che siano coerenti con il resto della discografia che, pur non essendo magistrali, riescono ad accontentare perfettamente sia i fan novelli che quelli di vecchia data. Di nuovo, sarebbe stato meglio presentare il disco così nel 2011 anche se, all’epoca non era possibile: come già accennato, Trevor Horn non ama molto esibirsi dal vivo, anche per colpa dello sfortunato tour che seguì la pubblicazione di “Drama” e, inoltre, all’epoca Benoît David avrebbe dovuto diventare la voce definitiva degli Yes e, quindi, serviva un album in studio che consacrasse il suo ruolo.
MADMAN AT THE SCREEN
Per quanto riguarda il futuro degli Yes, sembra che il nome potenzialmente possa durare più dei membri che lo hanno costruito. Secondo chi scrive, la cosa migliore sarebbe sotterrare l’ascia di guerra e fare un tour finale che ricordi un po’ quello di “Union” nei primi anni ’90, inglobando Anderson, Wakeman, Rabin, Howe, White, Downes e magari anche Sherwood e Schellen, per cercare di arrestare un po’ il volo in picchiata verso il basso che il gruppo ha preso negli ultimi 4 anni e chiudere con più dignità possibile (ma anche NO. Se vi sembra troppo lapidario: possono scegliere anche di no – ndr).
Di fatto, però, sembra che le cose siano destinate a procedere come stanno andando ultimamente: a quanto pare, Steve Howe, di recente ha dichiarato la volontà di fare uscire un nuovo album a nome Yes che includerebbe anche alcuni scarti di “Heaven & Earth” (gli scarti degli scarti – ndr) e quindi comunque conterebbe almeno in parte della presenza di Chris Squire. Una pubblicazione del genere aumenterebbe di sicuro la sensazione che Yes ormai, più che un complesso musicale, sia in tutto e per tutto una corporation interessata solo a far spendere soldi ai fan che sono ancora troppo affezionati al nome per abbandonarli (“lieve sospetto” che abbiamo già da più di un decennio – ndr). Detto questo, come dimostra questo “Fly From Here – Return Trip“, la cosa comunque non direbbe molto sulla possibile qualità del nuovo disco. Chi vivrà, vedrà.
YES – “Fly From Here” e “Return Trip”
Artista/Band: Yes
Album: “Fly From Here” – “Return Trip”
Data di Pubblicazione: 22 giugno 2011 (Fly From Here), 25 marzo 2018 (Return Trip)
Etichetta: Frontiers (2011), Yes 97 LLC (2018)
Produzione: Trevor Horn, ottobre 2018 – febbraio 2011, 2016 – 2017
Artwork: Roger Dean (e chi altri?)
Tracklist – “Fly From Here” e “Return Trip”
01 – Fly From Here – Overture
02 – Fly From Here Pt 1 – We Can Fly
03 – Fly From Here Pt 2 – Sad Night at the Airfield
04 – Fly From Here Pt 3 – Madman at the Screens
05 – Fly From Here Pt 4 – Bumpy Ride
06 – Fly From Here Pt 5 – We Can Fly (Reprise)
07 – The Man You Always Wanted Me to Be
08 – Life on a Film Set
09 – Hour of Need (versione lunga su Return Trip)
10 – Solitaire
11. – Don’t Take No for an Answer (solo su Return Trip)
12 – Into the Storm
Line Up – “Fly From Here” e “Return Trip”
Benoit David: voce solista (2011).
Trevor Horn: voce solista (2018), tastiere, chitarra acustica.
Steve Howe: chitarra elettrica, acustica, classica, voce di supporto, voce solista in “Don’t Take No for an Answer”.
Chris Squire: basso elettrico, voce di supporto, voce solista in “The Man You Always Wanted Me to Be”.
Geoff Downs: tastiere.
Alan White: batteria.
Ospiti:
Oliver Wakeman: tastiere su traccia 2,6 e 9.
Luis Jardim: percussioni.
Gerard Johnson: piano su traccia 7.